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Assoggettabilità al fallimento di Società e Associazioni Sportive Dilettantistiche (SSD e ASD)

Impianti sportivi, squadre sportive amatoriali, polisportive dilettantistiche, palestre, piscine sono servizi offerti in modo capillare, la cui natura ‘commerciale’ comunemente non si mette in dubbio.


Capita di chiedersi quale sia la natura del soggetto giuridico che gestisce tali servizi. Ci si domanda inoltre cosa succederebbe se questo soggetto dovesse essere insolvente e pertanto incapace di ripianare i propri debiti.


Dietro la fornitura dei servizi sopra menzionati sta un soggetto giuridico ben determinato, organizzato molto spesso nella forma dell’associazione (Associazione Sportiva Dilettantistica) o più raramente nella forma di società di capitali o cooperativa (Società Sportiva Dilettantistica).


Le Associazioni e le Società Sportive Dilettantistiche (ASD e SSD)


L’Associazione Sportiva Dilettantistica (ASD) nel nostro ordinamento è un’associazione con finalità sportive che non persegue scopo di lucro. E’ pertanto un ente costituito da più persone fisiche o giuridiche legate dal perseguimento in modo stabile e continuativo dello scopo comune di gestire una o più attività sportive svolte in forma dilettantistica. Essa è regolata dalle disposizioni del Codice Civile relative alle associazioni riconosciute e non riconosciute e dall’art. 90 L. 289/2002, il quale prevede un regime fiscale di favore per tali enti.


Medesimo regime fiscale di favore è previsto pure per la Società Sportiva Dilettantistica (SSD), che, diversamente dalla precedente, è invece costituita nella forma di società di capitali o di società cooperativa ai sensi delle rispettive normative civilistiche, con il mantenimento in ogni caso dell’assenza di scopo di lucro, caratteristica in comune con la ASD.


La questione dell’assoggettabilità di ASD e SSD alle procedure concorsuali


La questione da affrontare è la seguente: in caso di insolvenza, un'Associazione o una Società Sportiva Dilettantistica può fallire?


In altri termini, più precisamente, tali enti sono assoggettabili alla normativa prevista per le procedure concorsuali, a partire dall’art. 1 della Legge Fallimentare?


La risposta, a ben vedere, si troverebbe già al primo rigo del menzionato art. 1 L. Fall.: “Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale”.


Tuttavia non si tratta di una questione di tanto immediata e pronta soluzione, dato che, per risolverla, è preliminarmente necessario affrontare varie sotto-questioni, partendo dalla figura delle Associazioni così come strutturate dal nostro ordinamento.


Associazioni come imprese commerciali?


Le Associazioni nel nostro ordinamento sono enti costituiti da un insieme di persone fisiche o giuridiche legate dal perseguimento di uno scopo comune. Tali enti nascono dalla presenza di uno scopo associativo di natura ideale e con il conseguente divieto di distribuire eventuali avanzi di gestione tra gli associati.


Se da un lato tali enti sono costituiti con una finalità che non comporta lo svolgimento di attività intesa in senso stretto come economica, non è da escludere tuttavia che l’attività economica sia effettivamente svolta, anche in maniera eventualmente secondaria e strumentale rispetto a quella principale.


Se ci si chiede pertanto quali siano gli scenari in caso di insolvenza delle associazioni, è di tutta evidenza che la risposta sta nella qualifica o meno di tali enti come imprese commerciali o, in altri termini, svolte con ‘metodo economico’.


L’attività svolta con ‘metodo economico’, infatti, in questo contesto non deve considerarsi soltanto per il suo contenuto, corrispondente alla produzione e allo scambio di beni o servizi ex art. 2082 c.c., ma piuttosto per le sue modalità di attuazione, cioè quelle modalità che, con giudizio preventivo e astratto, consentano almeno la copertura dei costi con i ricavi (Presti G. - Rescigno M., Corso di Diritto Commerciale, Zanichelli, 2007).


La dottrina chiarisce che, nonostante normalmente le imprese siano caratterizzate dallo scopo di realizzare un avanzo di gestione (cd. lucro oggettivo) e di ripartirlo in favore dei titolari dell’attività (cd. lucro soggettivo), nessuno di questi due presupposti è necessario per considerare esistente un’impresa.


Il generale divieto di distribuzione degli utili e l’assenza di uno scopo di guadagno non impediscono pertanto che anche le Associazioni, sia pure in via strumentale al raggiungimento dei loro scopi ideali, possano svolgere un’attività corrispondente a quella delineata dall’art. 2082 c.c., con la conseguenza che l’Associazione in questo caso può assumere i caratteri di un’impresa.


Alla luce delle considerazioni dottrinali sopra esposte, è facile accorgersi come anche le Associazioni Sportive Dilettantistiche, pur non avendo finalità lucrative, possono comunque esercitare attività economiche: organizzazione di competizioni sportive a pagamento, di spettacoli, gestione di impianti sportivi e servizi annessi, ecc.


Pertanto, ai sensi sia dell’art. 2082 c.c. che della precedente dottrina citata, queste attività possono considerarsi senz’altro rientranti tra quelle svolte da un’impresa commerciale, con la conseguenza dell’assoggettabilità delle associazioni sportive - in questo caso considerate imprese - alle procedure concorsuali in caso di insolvenza.


L’evoluzione giurisprudenziale


Sin dagli anni ’50 la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata sulla questione, a partire dalla storica sentenza del Tribunale di Monza del 12 marzo 1955 (in Riv. dir. comm. 1956, II, pag. 483), con la quale il tribunale ha dichiarato per la prima volta il fallimento di un’associazione sportiva, e proseguendo con l’intervento della Cassazione, la quale ha ritenuto che “le associazioni assumono la qualità di imprenditore commerciale e sono sottoposte alle relative norme solo se esercitano un’attività commerciale in via esclusiva o principale” (Cass. Civ., 14 ottobre 1958, n. 3251 e successivamente Cass. Civ., 9 novembre 1979, n. 5770).


La Suprema Corte ha ribadito anche negli anni ’90 l’assoggettabilità delle associazioni sportive alla procedura concorsuale affermando che “lo status di imprenditore commerciale può e deve essere attribuito anche all’associazione che in concreto svolga, esclusivamente o prevalentemente, attività d’impresa commerciale” (Cass. Civ. n. 9659/1993).


In aggiunta, la Suprema Corte ha precisato più avanti che nel contesto di cui trattasi sono indifferenti le disposizioni tributarie circa le attività svolte dalle associazioni: la natura di ente non commerciale delle associazioni prevista eventualmente dalla normativa fiscale infatti non preclude l’assoggettamento di tali enti alle procedure concorsuali.


La Corte ha ritenuto come “non fosse messa in gioco l’armonia e la coerenza dell’ordinamento giuridico per la sola circostanza che una norma della legislazione speciale, per ragioni di politica fiscale, avesse stabilito che fossero da "considerare" come aventi natura non commerciale talune attività che sul piano civilistico generale, sarebbero state riconducibili all’impresa o all’imprenditore commerciale (art. 2082 e art. 2195 c.c.)” (Cass. 20.06.2000 n. 8374).


Più recentemente la Cassazione ha ribadito che “lo scopo di lucro (cd. lucro soggettivo) non è elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale, essendo individuabile l’attività di impresa tutte le volte in cui sussista una obiettiva economicità dell’azienda esercitata, intesa quale proporzionalità tra costi e ricavi (cd. lucro oggettivo)” (Cass. Sez. I, 24.03.2014 n. 6835).


Alla luce delle considerazioni di cui sopra, si arriva alla conclusione che l’associazione sportiva che abbia le caratteristiche delineate dall’art. 2082 c.c. come interpretate dalla giurisprudenza e che eserciti un’attività di carattere commerciale può essere sottoposta alla normativa fallimentare, in primo luogo pertanto all’art. 1 della Legge Fallimentare.


La soluzione alla questione appare ancora più lineare invece per le Società Sportive Dilettantistiche, dato che tali enti, costituiti come società di capitali o come cooperative, rientrano ancora più agevolmente nel novero delle imprese commerciali, con conseguente assoggettabilità alle procedura concorsuali.


E’ opportuno ricordare - soltanto di passaggio, in questa sede - che non sono soggette a fallimento e concordato preventivo le imprese che dimostrino il possesso congiunto dei requisiti previsti dal comma 2 dell’art. 1 sopra menzionato, dimostrando in sostanza di dover essere considerati come ‘piccoli imprenditori’, soggetti che la normativa esclude dal fallimento sulla scorta di determinati fattori economici e aziendali.

Eventuale estensione del fallimento agli associati. La peculiarità delle associazioni non riconosciute


E’ utile chiarire da ultimo la questione della possibilità di estensione del fallimento anche ai singoli associati (persone fisiche e giuridiche) delle associazioni.


E’ preliminarmente da escludere la configurabilità di un’estensione del fallimento anche agli associati nel contesto di associazioni riconosciute, stante la loro personalità giuridica e autonomia patrimoniale perfetta e la conseguente inapplicabilità dell’art. 147 della Legge Fallimentare.


Il nostro ordinamento tuttavia prevede anche la possibilità di costituire associazioni ‘non riconosciute’, la cui normativa dedicata - in particolare l’art. 36 c.c. - non disciplina i requisiti essenziali per l’ordinamento e l’amministrazione di tali enti di fatto, preferendo di affidare l’organizzazione agli accordi intercorsi tra gli associati esplicitati nell’atto costitutivo e nello statuto.


Nessun requisito di forma né alcun determinato contenuto è pertanto richiesto per atto costitutivo e statuto delle associazioni non riconosciute (a differenza di quanto previsto - principalmente dagli artt. 14-16 c.c. - per le associazioni riconosciute), fatta eccezione per l’indicazione dello scopo, elemento essenziale della categoria delle associazioni, il quale deve essere espressamente indicato al fine di caratterizzare l’ambito di attività dell’ente.


Le peculiarità dell’associazione non riconosciuta non escludono che essa sia identificata come autonomo soggetto di diritto (con conseguente distinzione tra patrimonio dell’ente e quello dei singoli associati), ma la caratterizzano per l’assenza di personalità giuridica.


Questa caratteristica ci porta a considerare un’altra rilevante questione dibattuta: l’eventuale estensione del fallimento dell’associazione a tutti i soggetti che abbiano agito in nome e per conto dell’ente o addirittura a tutti gli associati per le obbligazioni dell’ente dichiarato fallito, proprio sula scorta di quell’art. 147 L. Fall. precedentemente citato, il quale prevede che “la sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile” - società che prevedono quindi figure di soci illimitatamente responsabili - “produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili”.


Secondo un primo orientamento interpretativo il fallimento di un’associazione non riconosciuta comporterebbe il fallimento degli associati che siano illimitatamente responsabili ex art. 38 c.c., cioè quei soggetti che abbiano agito in nome e per conto dell’ente (Trib. Roma 6 aprile 1995, in Dir. fall., 1995, II, 719). Ciò sarebbe dovuto all’applicazione analogica dell’art. 147 L. Fall. alle associazioni oppure, secondo diversa dottrina e giurisprudenza di merito, in applicazione dell’art. 1 L. Fall., in quanto tali associati, al pari dei soci illimitatamente responsabili, sarebbero da qualificare come imprenditori commerciali.


Opposto orientamento, invece, esclude che il fallimento dell’associazione non riconosciuta si estenda anche agli associati, valorizzando la natura eccezionale dell’art. 147 L. Fall. - non estensibile analogicamente - nonché la differente natura e il diverso ambito di operatività della responsabilità illimitata degli associati (per le obbligazioni da questi assunte in nome e per conto dell’associazione) e di quella dei soci (per tutti i debiti della società) (Trib. Treviso 25 marzo 1994, in Dir. fall., 1995, II, 719).


Nel dibattito è intervenuta la Corte di Cassazione con una pronuncia che, sebbene ormai datata, costituisce l’orientamento ancora oggi valido sulla questione: il fallimento di un’associazione non riconosciuta avente lo ‘status’ di imprenditore commerciale non comporta né che gli associati siano imprenditori commerciali, né che il fallimento dell’ente produca il fallimento di tutti gli associati, poiché tale effetto si produce solo nei riguardi degli associati che siano illimitatamente responsabili secondo la disciplina propria delle associazioni non riconosciute, ossia, a norma dell’art. 38 c.c., per le persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione (Cass. Civ., Sez. I, 18 settembre 1993 n. 9589).

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